The Book of Vision, a Venezia 77 il tempo senza tempo di Carlo Hintermann

di Patrizia Simonetti

Un uomo e una donna uniti e collegati tra loro attraverso il tempo. Lui è un medico nella Prussia del Settecento, a metà tra l’animismo e la nuova medicina razionale che avanza, lei un giovane chirurgo che ha smesso di esercitare per dedicarsi alla storia della medicina e far calare un dubbio grande come una montagna su tutte le sue convinzioni. A metterli in comunicazione, o meglio in connessione spirituale, un libro delle visioni, The Book of Vision, che soltanto a leggerlo apre orizzonti infiniti, un libro dove Johan Anmuth, il medico, appuntava i sogni, le speranze, le paure e le sensazioni dei pazienti in nome di una medicina che non doveva toccarli, e dal quale Eva, il giovane ex chirurgo, resta stregata. Perché Eva è lì a chiedersi da tempo quando mai può essere accaduto che i medici abbiamo smesso di ascoltare i loro pazienti trattandoli solamente come corpi da conoscere alla perfezione e guarire in nome della scienza, dimenticandone l’umanità. The Book of Vision è il film di Carlo Hintermann, giovane cineasta romano al suo debutto con un lungometraggio che non sia un documentario e che vanta come produttore esecutivo il suo mentore americano Terrence Malick, chiamato ad aprire ufficialmente fuori concorso la 35° edizione della Settimana Internazionale della Critica a Venezia 77. Un’opera a dir poco visionaria dove si rischia di perdersi, ed è meglio no nfarsi troppe domande per goderne appieno, una coproduzione internazionale tra Italia, Gran Bretagna e Belgio con un cast altrettanto internazionale, da Lotte Verbeek (The Black List, Outlander, I Borgia) che è Eva, ma anche Elizabeth von Ouerbach, la ragazza curata e amata dall’anziano medico, a Charles Dance (Il Trono di spade) che è Anmuth, ma anche il dottor Baruch Morgan che ha invece in cura Eva, e nel quale troviamo anche Filippo Nigro nei panni del marito di Elizabeth, uomo di guerra e poco amore, e nel ruolo del loro figlio maggio Gunter Justin Korovkin, il Geremia di Favolacce.

Quel libro, The Book of Vision, e le suggestive lettere che contiene, è molto più di un testo di medicina e anche di un comune diario di un vecchio medico dai metodi antiquati, piuttosto  una sorta di varco temporale in vecchio stile: niente buchi luminescenti nello spazio, niente teletrasporti con scomposizioni di cellule, ma solo pagine di carta ingiallita e pensieri ed emozioni fissati con l’inchiostro, ed Eva viaggia tra il passato e il presente, tra il dolore e l’amore, attraverso, e in bilico, tra la vita e la morte, traendone un’energia così potente da permetterle di vivere intensamente la sua vita destinata a chiudersi in fretta perché malata, ma con una grande e straordinaria possibilità che continui perché incinta, anche lei nella contraddizione più crudele in cui la vita stessa possa relegarti. L’unico che può salvarti è un tempo senza tempo. E poi ci sono una cameriera adorabile creduta una strega perché parla con la natura e un grande albero magico cui fare offerte con le radici che sembrano (lo sono?) bambini morti che si muovono, ed entrambi, Maria e l’albero, non saranno tollerati a lungo nella loro irrazionale natura, così come il dottor Anmuth, capace di rendere madre una donna non più toccata da tempo dal marito.  

La possibilità di attraversare il tempo mi ha sempre affascinato – rivela Carlo Hintermannforse il primo motivo per cui mi sono innamorato del cinema è la sua capacità di saltare in dimensioni temporali e spaziali diverse. The Book of Vision fa di questa possibilità un elemento di forza. La passione maturata verso i film fantasy degli anni ’80 e ’90 con i quali sono cresciuto, da I Goonies a Labyrinth, da La Storia infinita a Ritorno al futuro, ha un ruolo importante. Il meccanismo è lo stesso: aprire una porta verso una dimensione inaspettata, verso il fantastico. Dal punto di vista visivo, sia la parte contemporanea che quella del passato tengono conto di questa porta: ogni luogo, ogni oggetto, ogni azione ha una valenza ambigua, in bilico tra due dimensioni”.

Fantastica la fotografia – lo stesso Hintermann è direttore di fotografia – qui di Joerg Widmer, già collaboratore di Wim Wenders, Quentin Tarantino, Michael Haneke, Roman Polanski e Bela Tarr. Fantastico anche il film, in tutti i sensi.