Che accade se la Santa Lucia che porta quattro camorristi come Don Vincenzo, suo figlio, Saverio e Andrea, all’isola carcere dell’Asinara, si imbatte in una tempesta e quelli ne approfittano per ammazzare il capitano e liberarsi? Solo che su quella nave ci sono anche i Campese, una famiglia di attori “di giro” dice Oreste, con lui la moglie Maria e la figlia Anna, più Pasquale, suggeritore aspirante attore e regista. E una volta naufragati tutti, o quasi, sani e salvi proprio sull’Asinara, non possono fare altro che mescolarsi, gli uni per non farsi beccare, gli altri perché costretti dalle minacce dei primi. Comincia così La stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu, in sala da oggi, giovedì 1 dicembre grazie a Microcinema, che intreccia e omaggia Shakespeare ed Eduardo, realtà e finzione, liberamente ispirato a L’Arte della commedia di De Filippo e alla sua traduzione in un napoletano del seicento de La Tempesta, l’opera sul mago Prospero del drammaturgo inglese, che racconta di dolori e di solitudini, di prigioni e di libertà, di arte e identità.
Destino infatti vuole che sull’isola vive da quindici anni il direttore del carcere che si chiama De Caro, ma è anche un po’ Prospero anche se non ha perso un regno ma l’amore, che è assai pignolo, che nella notte va a controllare amorevolmente sua figlia adolescente che guarda caso si chiama Miranda come la bella figlia con cui Prospero vive su un’sola, che magari non abbia paura dei tuoni, e poi la chiude a chiave in camera che non si sa mai. E siccome a lui il teatro piace, e soprattutto Shakespeare, dà a tutto il gruppo cinque giorni di tempo per mettere in scena La tempesta, tanto per restare in tema e così da riconoscere chi è attore e chi camorrista. Però loro, i camorristi, il linguaggio di Shakespeare non lo capiscono e allora si fa a modo loro e La tempesta si recita in napoletano che pare Gomorra… I piani si confondono e le trame si intrecciano proprio come nella stoffa dei sogni. Intanto sua figlia Miranda, che hai voglia a segregarla in casa, incontra il figlio malconcio di Don Vincenzo, che a suo modo è il re di Napoli come Alonzo, che il padre crede morto e che si chiama proprio Ferdinando, lo nasconde, lo cura e ovviamente se ne innamora. Tutto più o meno sotto gli occhi di Antioco, unico autoctono nonché superstite dell’isola praticamente occupata dal carcere, un po’ schiavo di De Caro come Calibano di Prospero, che non si capisce quando parla ma pare abbia davvero tanto da dire. Sembra quasi una magia… Ma “gli incantesimi miei sono finiti – dice alla fine De Caro – gli artisti erano tutti spiriti e sono svaniti nell’aria, nel nulla. Noi siamo fatti con la stoffa dei sogni e questa piccola vita nostra da sonno è circondata, sonno eterno…”
Ci sta benissimo Sergio Rubini nel ruolo del guitto Oreste Campese, lui sembra nato per quello, recitare nel recitare, teatro nel teatro e pure teatro nel cinema, tanto li mescola sempre comunque; e ci stanno bene anche tutti gli altri, facce note chi qua e chi là di film e fiction di mafia, Squadra Antimafia in testa, da Teresa Saponangelo che è sua moglie Maria, a Ennio Fantastichini che è il direttore del carcere, fino a da Renato Carpentieri che è il boss come in Solo, così come Francesco di Leva e Ciro Petrone che sono Andrea e Saverio. E poi Nicola di Pinto che è Pasquale, Fiorenzo Mattu che è Antioco e c’è pure Luca De Filippo, omaggio nell’omaggio, seppur per poco, nel suo ultimo ruolo cinematografico prima di andarsene il 27 novembre dell’anno scorso.