Almost Dead su Prime video: intervista al regista Giorgio Bruno

di Patrizia Simonetti

Una giovane donna si sveglia in un’auto di notte, nel mezzo di una boscaglia, legata e imbavagliata. Non ricorda com’è finita lì e neanche chi sia l’altra donna morta sul sedile di guida. In macchina trova una pistola e un cellulare quasi scarico. Mentre cerca di capire e riordinare le idee, la donna morta apre gli occhi e di colpo la morde su un braccio. Fuori dalla macchina si aggirano zombie mostruosi che prima o poi cercheranno di prenderla, ma probabilmente è già fregata. L’ansia sale lentamente guardando Almost Dead, film trionfatore del XXXVII Fantafestival e approdato su Amazon Prime Video distribuito da Draka, film tra l’horror e il thriller psicologico diretto da Giorgio Bruno, fondatore della casa di produzione e distribuzione Explorer Entertainment (Paranormal Stories, L’esigenza di unirmi ogni volta con te). Neanche le risposte che Hope, così si chiama ironicamente la protagonista interpretata da Aylin Prandi, riesce ad avere al telefono dalla sorella e da altre voci più o meno amiche falsamente tranquillizzanti, placano la tensione, anzi, se possibile quelle parole pronunciate con tono irreale e assolutamente inadatto alla situazione peggiorano le cose. La solitudine – nonostante la fulminea compagnia di un uomo – e la disperazione di Hope in Almost Dead la vivi in prima persona, niente sembra poterla aiutare, non c’è soluzione, non c’è antidoto al virus – così lo chiama la sorella spiegandole l’epidemia che fa proliferare i morti viventi – o forse sì, ma non è facile trovarlo. Eppure la soluzione, l’antidoto, il vaccino di tutto potrebbe essere proprio davanti ai suoi occhi, e anche ai nostri se allarghiamo il campo e metaforicamente pensiamo alla pandemia appena vissuta o a molto altro. Ne abbiamo parlato direttamente con il regista, ecco la nostra intervista a Giorgio Bruno:

Il fascino degli zombie sembra resistere al tempo, come mai?

Gli zombie sono una perfetta metafora degli esseri umani e oggi più che mai, in un momento cosi precario a livello mondiale, il concetto di morti viventi di romeriana memoria ha raggiunto il suo apice. Non stiamo facendo altro che cannibalizzare le nostre vite ad esempio attraverso i social, gli acquisti compulsivi etc. Ti è mai capitato quando sei dentro un centro commerciale di pensare a zombie di Romero? 

Eh, a volte sì… Molto di Almost Dead ci riporta al periodo che abbiamo appena trascorso: l’essere bloccati dentro, che sia in una casa o in un’auto, con il pericolo, fuori, del contagio del virus, la paura, la speranza e la ricerca spasmodica di un antidoto o di un vaccino… un caso o quasi una premonizione? Per questo il film, che non hai girato quest’anno, è arrivato ora in TV su Prime Video?

Almost Dead è la rappresentazione di una situazione tipica da film horror, quello che pensavano invece fosse fantascienza è accaduto per davvero. Se qualcuno qualche anno fa ci avesse detto che ci avrebbero costretti a casa a causa di un virus chi ci avrebbe creduto? Il film sta su prime Video grazie a un distributore che ha creduto nel film.

Quanti generi ci sono nel tuo film? Non possiamo accontentarci di definirlo un horror…

In realtà ho sempre pensato più ad un dramma che un horror. È una ricerca di redenzione. Mi piace giocare con i generi, di attraversarli e provare a sperimentare emozioni diverse in un genere come l’horror che dovrebbe avere come primario interesse quello di farti balzare dalla sedia. Ecco in Almost Dead questo non accade per scelta. 

Cosa vuol dire, cinematograficamente parlando, girare in un’unica location e quasi con una sola inquadratura?

È una scelta di stile potrei dire. L’idea di ambientare in un’unità di tempo, luogo e azione una storia tutta dentro una macchina mi intrigava.

Ci racconti come hai scelto per il ruolo della protagonista, Hope, Aylin Prandi, scelta importantissima in quanto, praticamente, unico personaggio?

Sapevo fin dall’inizio che non sarebbe stato un film facile, avevo bisogno di un’attrice che reggesse tutto il film sulle sue spalle. Trovai un’attrice francese che mi piaceva moltissimo ma poi per una questione di date non poté prendere parte al film, quindi a poche settimane prima dall’inizio delle riprese il mio aiuto regista mi segnalo Aylin Prandi. Fu amore a prima vista, sul set abbiamo lavorato benissimo e non vedo l’ora di tornare a lavorare con lei. 

Quelle voci al telefono che tentano di consolare Hope mi sono sembrate tutt’altro che rassicuranti… era questo lo scopo, gettare benzina sul fuoco della paura?

Assolutamente si. È un film molto pessimista per quanto io non siaper nulla una persona pessimista. Hope non è assolutamente un personaggio positivo, quindi niente avrebbe dovuto rassicurarla.

E visto il finale tragicamente ironico, perchè lei si chiama Hope, cioè speranza? Non ne abbiamo? Oppure, come nel film, la soluzione di tutto è a portata di mano ma non riusciamo a vederla?

Il gioco Hope/speranza è assolutamente tragicamente ironico. Nel film dipingo un mondo che non ha speranza, ma che la soluzione sia davanti a noi e facciamo finta di non vederla, è certamente la lettura più giusta, sia sul finale che sull’intero.