Venezia 72: Non essere cattivo, bello e toccante il film postumo di Claudio Caligari prodotto da Valerio Mastandrea

di Patrizia Simonetti

Duro, crudo, vero. Bello. In qualche modo seguito ideale di Amore Tossico ma, per usare le parole dello stesso Claudio Caligari “non un semplice spaccato fenomenologico del nuovo mondo tossico, ma più ambiziosamente la fotografia dell’esito finale del mondo pasoliniano”.

A più di trent’anni dal suo primo film “sulla colonizzazione delle borgate pasoliniane a opera dell’eroina” e a 17 da L’odore della notte, prima di andarsene lo scorso 26 maggio, il regista piemontese è tornato in quel mondo di degrado e di droga consumata e spacciata, di alcol e di locali notturni della Ostia degli anni novanta con Non essere cattivo, il suo film postumo scritto con Francesca Serafini e Giordano Meacci, prodotto non senza fatica dall’amico e collaboratore Valerio Mastandrea con Kimerafilm, Rai Cinema e la Taodue di Valsecchi, a Venezia 72 come evento speciale fuori concorso e da martedì 8 settembre in 60 sale distribuito da Good Films. “Ho semplicemente acceso la macchina che era rimasta senza benzina – dice Mastandrea – e anche se non è in concorso va bene così, la cosa più importante era far sì che Claudio concludesse il film e che il film trovasse il suo percorso”.

Ostia, litorale romano, borgata di vita e di morte del poeta Paolo, 1995. C’è la coca adesso, e ci sono le pasticche, quelle dai nomi invitanti e innocenti tipo Play Boy e Fragolina. Cesare e Vittorio sono amici da sempre, anzi, fratelli di vita, figli, entrambi, di quel mondo dove il tempo non passa mai e allora “che famo? Annamo a dà du carci…”, però in spiaggia col pallone c’è il rischio che ti buchi, senza volerlo per carità, è che “sti tossici de merda se fanno le pere e lasciano le spade in giro”. Tossici gli altri che si iniettano eroina nelle vene, non loro che sniffano coca e si calano tanto da sentirsi onnipotenti quanto Dio. Ma poi è su quella spiaggia, complice una pistola di cui liberarsi, che Vittorio incontra Linda, madre single e coraggiosa, e quel caffè che gli offre in cucina, quel figlio che “io tiro su lui, e lui tira su me” e l’ultima allucinazione di una sirena ammazzata sull’asfalto, gli fanno decidere che adesso basta, che adesso si cambia vita, ci si mette in riga, ma facile non è, la strada ti reclama, la vita ti provoca, il cantiere non ti salva, e poi il lavoro in borgata ma cos’è?, e Cesare ti tira giù, però ci provi, cadi, ti rialzi, e ci riprovi.

Cesare invece non ce la fa proprio, però l’anima ce l’ha pure lui, grande, come il cuore, quando sta con Debora, figlia della sorella portatagli via, a lui e a sua madre, dall’AIDS e dall’incoscienza di un uomo che lei “manco era tossica” ricorda Cesare. Lui la chiama brutta quella ragazzina sfortunata, ma non perché ha gli occhi cerchiati di nero e la pelle bianca e presto li lascerà anche lei, ma per scherzo, e le regala un orso di peluche, rubato certo, con scritto sulla maglia rossa “non essere cattivo” ma lui quel monito lo leggerà dopo. Pure Cesare poi si innamora, di Viviana, anima perduta pure lei, che barcolla in tacchi alti e minigonna davanti al bar ogni notte, ma non fa la prostituta, però vestita così lo sembra proprio, le grida Vittorio che l’ha lasciata a “quella sbroccata…” Ma a Cesare piace com’è e le regala pure una casa, un rudere fatiscente col tetto bucato che però “mica lo tappamo – le dice – quando vai al cesso e c’hai paura che te casca ‘na mattonella in testa, è un brivido, lo voi provà un brivido?” e che per loro è una reggia e “qua ce se sta bene in due e ce se sta bene in tre, non lo voi fa un bambino? Io voglio tutte Viviane, una casa piena di Viviane…” e poi “fatte guardà in faccia, tutta la vita te vojo guardà”. Sogna Cesare e quasi ci stupiamo a chiederci perché mai non dovrebbe, e ci crede, forse. Lei un po’ meno e piange col magone perché “me capita sempre quando sto bene – dice – me chiedo quanto può durà…” La felicità del resto è un attimo, e mai quanto a Ostia nel 95 per Cesare, Vittorio, Viviana e Linda.

Si ride anche, tra scene esilaranti e battute tipiche della romanità più popolare, come per la trovata della cocaina frizzantina che certo non esiste ma “c’ha il suo perché” o per l’amica grassa che accalcata in macchina vuole la sua botta e che “alla posta so più svelti” si lamenta. Bravissimi Luca Marinelli e Alessandro Borghi, e anche Silvia D’Amico e Roberta Mattei, facce e dialoghi ti prendono e ti emozionano e non puoi non stare dalla loro parte. E alla fine ti commuovi per un finale che non ti aspetti, non da Claudio Caligari magari, ma così è e a noi piace.