Valley of the Gods, tra immagini e suoni, leggende e poesia

di Patrizia Simonetti

Un uomo a dir poco eccentrico vive sul picco di una montagna in un enorme palazzo dal lusso sfrenato: si chiama Wes Tauros ed è in assoluto il più ricco sulla terra. Colleziona arte, nel grande giardino ha tante statue bianche di persone che ha conosciuto e amato, si nasconde al mondo e nel profondo custodisce un doloroso segreto. E c’è un altro uomo più giovane, ma altrettanto particolare, che nonostante di professione faccia lo scrittore, non usa computer né ogni altro tipo di tecnologia. Separato da una moglie che non voleva e non vuole tuttora lasciare, si chiama John Ecas. Interpretati rispettivamente da John Malkovich e Josh Hartnett, sono i due protagonisti di Valley of the Gods, il nuovo film di Lech Majewski, cui se ne aggiunge un altro: il mondo dei Navajo e, appunto, la Valle degli Dei, una terra sacra che, secondo un’antica leggenda, fra le sue rocce conserva gli spiriti di divinità antiche, che Tauros ha violato alla ricerca di uranio. I tre mondi si intrecciano inesorabilmente quando John comincia a scrivere la biografia di Tauros e accetta la sua ambigua e inquietante ospitalità nel misterioso palazzo sulla montagna. Poi prende una scrivania e la piazza proprio nel mezzo della Valle Sacra….

Stupenda la fotografia, e anche l’eterea e surreale atmosfera di tutto il film che riesce a rendere percepibile la ricchezza interiore dello scrittore e quella spirituale di un intero popolo, quello dei Navajo. Nel corso della storia ci si perde un po’, ma è l’immagine a dominare assieme al suono, sono quindi più i sensi e l’istinto a guidarci, piuttosto che la logica e la ragione. E la poesia. Ciò che sappiamo è che c’è un uomo, un artista, uno scrittore, che si mette tra il magnate e i Navajo, due mondi diametralmente opposti per storia, valori e cultura. E che l’intero racconto è opera sua, dello scrittore, che diventa quindi una sorta di alter ego dello stesso Majewski nel narrare e fermare gli eventi a modo suo. Non sapremo mai se è davvero del tutto vero, e neanche reale. Una curiosità: nel film si vede anche la Fontana di Trevi… Perfetto il cast che, oltre ai due già citati protagonisti comprende Berenice Marlohe, John Rhys-Davies e Keir Dullea. Valley of the Gods arriva al cinema giovedì 3 giugno.

In Valley of the Gods ho voluto mostrare che l’uomo più ricco della terra che vive in cima a una montagna, in un mondo completamente protetto, una volta che si confronta con la realtà comune può diventare completamente vulnerabile – dice Lech Majewski, poeta, pittore, artista multimediale, compositore, scrittore e regista, che qui ha curato anche produzione, sceneggiatura, fotografia e sonoro – l’essenza dell’arte è il contrasto e qui abbiamo un contrasto enorme tra sistemi di valori diversi: da un lato il mondo ancestrale dei Navajo, abitanti della Valle degli Dei, e dall’altro quello del magnate Wes Tauros. Mi sono chiesto come sarebbe un ‘Citizen Kane’ di oggi. La domanda è nata quando stavo scrivendo e producendo il film ‘Basquiat’. Per preparare il lavoro ho intervistato alcuni dei collezionisti d’arte più importanti degli Stati Uniti, che sono tra gli uomini più ricchi del mondo. Non rimasi colpito dal modo in cui parlavano di Basquiat, per loro era più che altro una merce di scambio, quasi oggetto di speculazione finanziaria, ma dal fatto che la maggior parte di loro era infelice, nonostante le infinite possibilità che avevano. Nulla a che vedere con quella forza e quel calore che senti quando entri in contatto con i Navajo. Ironia della sorte, sembra quasi che le persone povere siano più felici. John, interpretato da Josh Hartnett, è uno scrittore, ma non ha mai avuto la possibilità di spiccare il volo. Tutto ciò che accade nel film lo vediamo attraverso i suoi occhi e le sue descrizioni. Non sappiamo se ha rappresentato la pura realtà o se l’ha piegata alla sua scrittura. Siamo nella mente dello scrittore, dell’artista, e questa è l’idea alla base del film.

Il ruolo di Tauros in Valley of the Gods si può ricollegare a tutte quelle persone che hanno ottenuto grandi successi materiali nella propria vita – dice John Malkcovich – certo, questo presuppone che si abbiano dei sogni, ma non sempre avviene, si può anche semplicemente vivere. Posso immaginare che per una persona molto ricca, che non c’è niente che non possa comprare o che non possa fare, diventi difficile desiderare di avere qualcosa o desiderare di vivere certe esperienze. Più invecchi, più la morte è con te, o attorno a te, o diventa familiare, oppure occupa i tuoi pensieri. Ho perso quattro famigliari negli ultimi sei anni, non erano troppo anziani, tranne forse mia madre. Quindi, in queste circostanze, il personaggio di Wes Tauros dice che sarà davvero a suo agio solo quando non avrà niente e giacerà nella sua tomba. C’è qualcosa di confortante in una fine così. Sarebbe bello pensare alla fine della propria esistenza come a qualcosa di tranquillo.

L’ho sentito come uno dei film più sperimentali a cui abbia lavorato, mi è piaciuto tantissimo – rivela Josh Hartnett Questo film ha anche uno scopo, e la verità emergerà…  È qualcosa di speciale e unico.  Sarà una visione insolita, e credo sia raro di questi tempi. Diversamente da altri film in cui ho recitato, o da altri film che le persone hanno visto, soprattutto negli Stati Uniti, sarà chiaro che si tratta della visione di Majewski. Lech quando ti parla per la prima volta ti guarda negli occhi e fa un mezzo sorriso. Ti guarda e nella testa sta giudicando qualunque cosa tu stia facendo, ti intimidisce. Mi aspettavo che venisse sul set avendo già ben chiaro in mente cosa volesse, mi aspettavo che fosse riservato e che non me l’avrebbe comunicato. Invece sul set è stato l’opposto: lui arrivava con un’idea, certo, ma poi se la chiariva sul set, era molto aperto e si creava un’atmosfera intima. Questo ha reso il mio lavoro di attore meno impegnativo di quello che pensassi. Se c’era qualcosa che non funzionava, Lech era aperto a cambiare il suo approccio. È un regista aperto e questo mi piace. Dopo aver visto ‘I colori della passione’ ho capito cosa Lech volesse visivamente, che stile avrebbe voluto per questo film, e ho sentito che la pensavamo allo stesso modo. Ho percepito fin da subito una sorta di calore, un’empatia per Lech, non so perché. Lui mi piace molto, e volevo aiutarlo a raggiungere la visione del film che aveva impostato. Non mi aveva dato indicazioni su cosa volesse da me e sentivo che sarebbe stato interessante stare sul set: si sarebbe sviluppato un dialogo giorno per giorno. Quello che succede sul set è inusuale e non arriva da nessun’altra parte. È parte di Lech e tutti si devono mettere a servizio di questa sua visione. Il risultato è fantastico ed è bellissimo farne parte.

È stato affascinante lavorare in Valley of the Gods e condividere la stessa visione della vita e di ciò che è importante – racconta Berenice Marloheper me è una soddisfazione scoprire che alcune persone nutrono ancora interesse per l’arte, per la creatività, che sfidano le convenzioni, che portano nei film il loro punto di vista sulla vita e sui temi importanti. Sono rimasta colpita dall’originalità e soprattutto dalla sostanza della sceneggiatura, dai suoi messaggi: parla di umanità, mi fa pensare alla libertà, all’universo e a tanti temi che sono importanti nella mia vita. E allo stesso tempo è completamente sorprendente: è un universo surreale in cui si scontrano gli opposti, lo yin e lo yang. È una straordinaria metafora della vita, ambientata in un mondo fantastico, ed è rappresentata come una poesia. Le immagini, di grande impatto visivo, sono così diverse da tutto ciò che vedo e che leggo ogni giorno. Lech ha la sua visione, sa quello che vuole, ma è completamente aperto al momento presente, per adattarsi alle cose. Se gli viene un’idea la porta avanti, ed è un approccio alla vita e allo spettacolo che apprezzo molto. Lech ha una sua visione e un suo universo che sono unici. Sapevo che è un artista completo, uno scultore, un compositore, e per me è importante e molto appagante lavorare con questo tipo di persone che hanno un loro universo e una loro sensibilità caratteristica.

Sono stato attratto dal progetto perché avevo visto ‘I colori della passione’ di Lech Majewski: quando ho visto il film, sono saltato dalla sedia – ricorda Keir Dulleadevo dire che è il regista di film più emozionante con cui abbia lavorato dai tempi di Stanley Kubrick (Dulela è stato il protagonista di 2002: Odisea nello spazio n.d.r.). Stanley non era mai stato nello spazio, ha usato la sua immaginazione. In ‘Valley of the Gods‘ si può davvero vedere il talento di Lech, non solo come regista, ma anche come pittore, come poeta, come scrittore di prosa. Il suo talento va oltre la media degli altri registi. È una persona con molti talenti. C’è una mia battuta in cui parlo di una catapulta, molto famosa, disegnata da Leonardo Da Vinci. Non so se sia mai stata realizzata, ma è stata costruita per la prima volta per questa produzione. La catapulta è stata ideata 500 anni fa dalla mente geniale di Leonardo Da Vinci e questo film è stato ideato dalla mente geniale di Lech. Gli elementi che lega insieme nel film sono disparati, sono affascinanti. Ha messo insieme l’ambientazione più interessante e piena di contrasti che possiate immaginare!