Premio del Pubblico al Festival di Venezia nella sezione Giornate degli Autori, Un divano a Tunisi, al cinema dall’8 ottobre, è il primo lungometraggio della sceneggiatrice e regista franco-tunisina Manèle Labidi. Una commedia brillante e leggera che tratta con ironia temi delicati dal punto di vista di una donna anticonformista.
Golshifteh Farahani è Selma, trentacinquenne forte e indipendente, cresciuta con il padre a Parigi, che decide di tornare a Tunisi, la sua città d’origine, per aprire uno studio da psicanalista e ritrovare le sue radici. In Tunisia c’è da poco stata la Primavera araba, ma il paese sembra non essere ancora pronto per l
a psicanalisi, soprattutto se praticata da una donna! Selma non si dà per vinta, apre lo studio sul tetto della casa dei suoi parenti, che non fanno altro che osteggiarla e guardarla storta, e inizia a ricevere i clienti, bizzarri, curiosi e un po’ scettici. In Tunisia ci si confessa in un hammam o in un salone di bellezza e il lettino dello psicanalista è ancora semisconosciuto. Proprio grazie ad una parrucchiera intraprendente e stressata che vuole sperimentare le teorie di Selma insieme alle sue clienti, sul divano della psicanalista inizia ad arrivare una carrellata di personaggi stravaganti e caricaturali che rappresentano l’inconscio di una società schizofrenica in mutazione e che danno vita a situazioni comiche e surreali, primo fra tutti il panettiere che ama vestirsi da donna e sogna le avances dei grandi dittatori della Terra. Selma, però, dovrà scontrarsi con la burocrazia, il clientelismo, i pregiudizi e un poliziotto idealista e reazionario, attratto da lei ma un po’ troppo zelante. In questa baraonda colorata e problematica, la giovane donna percorrerà il suo personale cammino per ritrovare se stessa e le sue origini.
Un divano a Tunisi è un film di matrice autobiografica, ha s
ottolineato la regista che ha voluto ambientare il film nella sua terra d’origine: “Per me Selma è un mezzo per esplorare il rapporto ambiguo che ho con questo paese che penso di conoscere, di cui parlo la lingua e di cui conosco bene le consuetudini, ma con cui spesso non mi sento in sintonia. Rompendo con la tradizione, le mie scelte personali e professionali hanno confermato alla mia famiglia tunisina l’impressione che ha sempre avuto di me: quella di una donna strana e atipica, pazza agli occhi di alcuni, stravagante e scandalosa agli occhi di altri. È questo il motivo per cui racconto questa storia da un punto di vista personale, attraverso la lente di una d
oppia cultura, francese e tunisina”.
Lo sguardo del film è quasi tutto al femminile, che sia quello delle donne arabe in bilico tra tradizione e voglia d’emancipazione, oppure quello della protagonista Selma, interpretata da un’eccezionale Golshifteh Farahani. Con la protagonista di Un divano a Tunisi ha in comune sicuramente il carisma, la determinazione, la passione e la volontà di realizzare liberamente i propri sogni. L’attrice, infatti, è stata la prima iraniana ad essere entrata in una grande produzione hollywoodiana, Nessuna Verità di Ridley Scott con Leonardo di Caprio, un primato che le è costato l’esilio per essersi mostrata senza velo.
Manèle Labidi ha scelto il tono della commedia per far sorridere, sì, ma anche per parlare di argomenti delicati e profondi. I binari che ha seguito in Un divano a Tunisi sono quelli della commedia all’italiana degli anni Sessanta e Settanta e ci sono alcuni omaggi espliciti, come la scelta di far iniziare e finire il film sulle note di due canzoni cantate da Mina: Città vuota e Io sono quel che sono. La regista lo spiega così: “ho scelto di trattare l’argomento in chiave di commedia. Le situazioni e i contesti sono spesso tragici, ma l’ilarità e il paradosso non sono mai molto lontani. I tunisini che conosco e che osservo da tutta la vita mi tirano pazza e al tempo stesso mi fanno ridere. Le commedie italiane degli anni 1960 e 1970 sono state un riferimento importante per me in quanto trattano tematiche sociali e politiche in chiave umoristica e satirica. Quelle commedie (I soliti ignoti, I mostri, Matrimonio all’italiana, Boccaccio 70, Brutti, sporchi e cattivi…) per quanto possano essere sfacciate, volgari ed eccessive, sono sempre venate di poesia e di umanità. Anche in questo caso, il legame tra quella stagione del cinema italiano e la mia cultura arabo-mediterranea è evidente e il modo di parlare, mangiare e vivere descritto in quei film esercita una eco immensa dentro di me”.

