Certe cose non si possono capire se non si vivono in prima persona. Così quindi come non si può comprendere, senza esserci, cosa significa trovarsi in mare a tirare su persone dall’acqua e da gommoni di fortuna, donne e bambini, vivi quando va bene, allo stesso modo non si può neanche immaginare cosa si prova ad essere chiusi in cinque in un container per un viaggio al buio senza cibo né acqua attraverso l’Europa che chiamarlo della speranza non è che un eufemismo. The Container è il titolo dello spettacolo tratto dal testo di Clare Bayley che nel 2007 ha vinto l’Amnesty Freedom of Expression Award e che da stasera, domenica 30 ottobre e fino a sabato 5 novembre è in scena nella traduzione italiana di Carlo Emilio Lerici (qui la nostra videointervista a Carlo Emilio Lerici) che ne cura anche la regia al Teatro Belli di Roma in doppia recita, alle 18 e alle 21, nell’ambito della rassegna Trend dedicata alla scena britannica e curata da Rodolfo Di Gianmarco. Una produzione dello stesso Teatro Belli che vede il patrocinio di Amnesty International Italia “per aver trattato il tema della migrazione in modo originale ma fedele alla realtà – si legge nella motivazione – mettendo in risalto le diverse facce del fenomeno e delle violazioni dei diritti ad esso, purtroppo, legate”.
Capire in un momento così particolare è importante, comprendere è fondamentale. Ecco allora che il teatro diventa realtà e il pubblico, non più di 25 persone a rappresentazione, è chiuso in un vero e proprio container con i cinque protagonisti, immersi nella loro stessa semioscurità interrotta solo dalle torce che ne illuminano i volti, quando uno ad uno raccontano la loro storia. Come quella di Mariam in fuga dall’Afghanistan dove i talebani le hanno decapitato il marito perché continuava a fare scuola alle ragazze; quelle di Asha e di Fatima che vengono da un campo profughi in Africa; quella del curdo Jemal che vuole ritrovare la sua famiglia; e pure quella di Ahmad che è un uomo d’affari eppure è lì con gli altri nel container. Profughi? Immigrati? Migranti? Clandestini? Uomini e donne, solo quello, che non sanno neanche dove li portano davvero, non sanno nemmeno se stanno fermi o in cammino, e che hanno fame e sete e se la prendono l’uno con l’altro come accade quando c’è la disperazione. Finché non arriva il loro trafficante a dirgli che il viaggio è quasi finito e che se vogliono arrivare in Gran Bretagna devono tirare fuori altri soldi oltre a quelli che hanno già dato prima di partire. Ahmad ce l’ha, ma agli altri non restano che un sacchetto di riso, un orologio, l’anello di un nonno e una pistola rotta…
In scena, nel container, Saeid Haselpour che è davvero arrivato dall’Iran 7 anni fa dentro a un container: “ero convinto di essere in Gran Bretagna – racconta – e invece ero a Milano e dopo varie peripezie sono arrivato a Napoli dove vivo e lavoro. Ho una grande passione per il teatro e la recitazione e prima di The Container ho interpretato Achille nel film-documentario Iliade di Prospero Bentivenga”. Con lui l’attore e regista tunisino Hafedh Khalifa, già visto in teatro con Martone, Cobelli, Cherif, in diverse fiction e ne La passione di Cristo di Mel Gibson; l’artista egiziano Eslam Saeed in Italia ospite dell’Accademia d’Egitto dopo aver vinto il National Creativity Award, il più importante riconoscimento nazionale, alla sua prima esperienza in Europa; Antoinette Kapinga che arriva dal Congo e che al Teatro Belli è di casa dopo aver recitato qualche stagione fa in Che fine ha fatto Baby Jane? diretta da Antonio Salines; la russo-marocchina Nadia Oulski che fa la modella a Casablanca e il primo film l’ha girato a 17 anni; e Jasmine Volpi che è italo marocchina e che è la prima volta che calca un palcoscenico.