Teneramente folle: nell’opera prima di Maya Forbes la vera storia di suo padre, bipolare e innamorato. Con Mark Ruffalo

di Patrizia Simonetti

Si entusiasma per un nonnulla e poco dopo si intristisce come un pesce rosso in una boccia di vetro, ha la pazienza e la grazia di una sartina per cucire con le sue mani una gonna da flamenco per sua figlia e “sono l’unico padre in tutta l’America in grado di farlo” declama con orgoglio, ma poi si inalbera ed è proprio sull’albero che andrà a recuperarne la stoffa lanciata dalla finestra. I bipolari sono così, alternano fasi maniacali e depressive, periodi in cui si sentono onnipotenti e ottimisti e altri in cui la disperazione e la sfiducia in se stessi prende il sopravvento, e spesso il cambio avviene così velocemente che ci resti di stucco e non capisci. Sono imprevedibili, si scordano le cose, non si concentrano, dormono e mangiano poco e male, come non ne avessero il tempo. Però lo sanno di essere così e possono essere dolcissimi, soprattutto in famiglia.

Se hai avuto un padre così non puoi non raccontarlo e se lavori nel cinema non puoi non farne un film, magari con un grande Mark Ruffalo, e intitolarlo Infinitely Polar Bear, ovvero Teneramente folle. Così la sceneggiatrice Maya Forbes lo ha fatto e il suo debutto alla regia è dedicato proprio a lui, suo padre, ed esce giovedì 18 giugno in 60 sale distribuito da Good Films, dopo essere stato apprezzato al Sundance e ai Festival di Toronto e Torino.

“Amo i film personali sulle famiglie – spiega la Forbes – i film che ci mettono in connessione l’uno con l’altro e con la nostra umanità. Eppure, ho lavorato a Hollywood instancabilmente come sceneggiatrice, per quindici anni, senza mai scrivere il tipo di film che preferivo. Finché non mi decisi a finire una sceneggiatura basata sulla mia infanzia. Quando avevo sei anni il mio mondo implose….”

Così è lei stessa, tramite il suo alter ego Amelia, a raccontare tutta la storia. “Nel 1967 diagnosticarono la sindrome bipolare a mio padre – racconta la voce della ragazzina all’inizio del film – se ne andava in giro per Cambridge con una barba finta, lì incontra mia madre, così si sposarono ed ebbero me e mia sorella”. E per un po’ Cameron detto Cam (Mark Ruffalo), bianco e di famiglia benestante, e Maggie (Zoë Saldana), nera e di più umili origini, legati dagli stessi ideali e conosciutisi grazie ai movimenti studenteschi, vivono felici e contenti, e pure le loro due figlie Amalia (Imogene Wolodarsky) e Faith (Ashley Aufderheide): certo lui fa cose strane, tipo fissarsi con le spugne del bagno, uscire senza pantaloni e prendere a cazzotti il cugino antipatico, però cucina meglio di Cracco, aggiusta un sacco di cose, gioca con gli amici delle figlie.

Il matrimonio perfetto però non dura a lungo, non è facile se lui beve, non prende le medicine che lo stabilizzano ed evitano i bruschi cambi di umore, non lavora. E poi deve tornare a curarsi, ma la fiducia di Maggie in lui resta e quando deve lasciare Boston per New York per un dottorato che forse potrebbe aprirle la porta verso un futuro migliore per lei e le ragazze, è lui che chiama affinché stia con le figlie e si prenda cura di loro. Perché “papà non potrebbe mai farci del male – dice ad Amelia e a Faith – ma le persone faticano a capirlo”. Ma in certi casi, dopo varie situazioni “imbarazzanti”, è facile che i compiti si invertano e si compensino e a volte siano i grandi a salvare i piccoli, e altre volte il contrario. Purché ci sia la colla che tenga unito il vaso, quell’amore che tra loro tuttavia non manca. Cam lo sa e sa anche che questa è l’occasione di riconquistare Maggie e ce la mette tutta. Perché è bipolare, mica scemo.