Ride, l’opera prima di Valerio Mastandrea sull’espressione del dolore

di Patrizia Simonetti

Che ci siano mille modi di versi di soffrire e di manifestare il proprio dolore è cosa assodata. Non per forza se ti muore un marito di 35 anni sul lavoro durante un turno di notte devi per forza disperarti e piangere a dirotto come invece fa la sua ragazza del liceo che ti viene a trovare per conoscerti e farti le sue condoglianze, o la coppia di amici che si sta per separare e che inonda il tuo divano di lacrime. Non vuol dire nulla il fatto che a te non ne venga giù neanche una di lacrima, e sì che ti ci metti di impegno riascoltando le vostre canzoni preferite e rivivendo come un mimo smemorato l’ultima cena del povero Cristo che si chiamava Mauro, che avevi sposato e con il quale avevi fatto pure un figlio. Ed è esattamente ciò che accade a Carolina, la protagonista di Ride, presentato al Torino Film Festival e nelle nostre sale da giovedì 29 novembre, esordio alla regia di Valerio Mastandrea che amiamo tantissimo, ma forse un po’ di più come attore, e che ci ha messo la sua compagna Chiara Martegiani ad interpretarla. Carolina dunque non piange il marito morto sul lavoro neanche dopo una settimana, non si dispera nemmeno per l’imminente funerale in occasione del quale, per convenzione, o forse anche per natura, dovrebbe invece farlo, piuttosto si mette a discutere con il figlio, mentre fanno colazione come in un giorno normale, come si vestiranno per la cerimonia funebre.  “Nell’epoca in cui viviamo è difficile entrare in contatto con la spontaneità delle nostre emozioni – dice Valerio Mastandreami interessava dare la colpa a questa società che ti impedisce di vivere il dolore in modo sano. Quello di Carolina in Ride è un dolore negato da qualcuno o da qualcosa. L’epoca che ci è toccata, specie questi ultimi trent’anni, ci regala la possibilità di vedere e sentire tutto amplificando in maniera esponenziale la nostra percezione del mondo, e nello stesso tempo depotenziandoci emotivamente rispetto al tutto che incontriamo. Questo accade per le cose belle ma anche per le cose che ci fanno soffrire. Carolina è sconvolta dall’incapacità di stare male per quello che le sta capitando. Perché è così lontana dal dolore? La verità sta nell’occhio di bue che gli hanno puntato addosso giorno e notte, davanti al quale lei è stata ferma, immobile con la sua ingenuità e con la sua prima volta-vedova di morte sul lavoro, come un’attrice che dell’imbarazzo ha fatto la propria cifra migliore”. Noi però nel film quell’occhio di bue puntato costantemente e cinicamente sulla giovane vedova non siamo riusciti a vederlo.

Carolina non è comunque la sola che dovrebbe piangere Mauro: c’è anche il padre, suo suocero, interpretato da un credibilissimo Renato Carpentieri, quello che in qualche modo l’ha costretto a restare a lavorare in quella fabbrica dove lavorava lui ricattandolo d’amore. E c’è anche un fratello, suo cognato, faccia e tutto il resto di Stefano Dionisi, uno che invece al padre ha dato retta meno di zero, si è messo più volte nei guai e accusa il vecchio genitore di avergli ucciso il fratello, gridando vendetta. E poi c’è il bambino: si chiama Bruno e ad interpretarlo è Arturo Marchetti, e se ne sta sulla terrazza del palazzo con l’amico Ciccio (Mattia Stramazzi) a ripetere a memoria una sorta di servizio per la morte bianca del padre e le risposte da dare ai giornalisti che sicuramente lo intervisteranno. Anche perchè la ragazzina dei suoi sogni pare che si metterà con lui solo dopo averlo visto in TV. Lui si accorge che la madre non piange, anzi ride, ed è imbarazzato nel dirlo sfacciatamente ai compagni di scuola che gli chiedono come sta la mamma. Ma non piange neppure lui. Chissà se il neo regista non ci abbia visto un po’ il suo di figlio che ha circa due anni meno di Bruno.

Un film “strano” questo primo di Valerio Mastandrea, coraggioso certo, originale e mai banale, ma a chi escono le lacrime per un passerotto caduto dal nido e piange a dirotto per la perdita di un gatto o di un cane, e lasciamo stare per un membro della propria famiglia, resta difficile, come dire, “crederci”. E soprattutto seguire le varie sezioni del film che, pur non essendolo, appare troppo lungo, battendo e ribattendo sulla stessa questione. Però in Valerio Mastandrea abbiamo grande fiducia e aspettiamo l’opera seconda.