Immaginate una tranquilla comunità islamica che vive a Venezia perfettamente integrata e in pace con se stessa e con i cittadini. All’improvviso però, mentre i loro membri pregano nella loro piccola moschea in video collegamento con un imam lontano, la polizia fa irruzione e sgombra il locale perché è stato acquistato da un’avvenente parrucchiera di nome Zara che la trasforma in un colorato, e persino unisex, salone di bellezza. Scattano piani maldestri e tentativi inutili di riprendersi il luogo di culto da parte di un gruppo ristretto, molto ristretto della comunità, anzi, la comunità è solo quel gruppo ristretto.
Il più agguerrito di tutti è proprio un veneziano, Bepi, convertitosi all’Islam, ultimo rampollo di una famiglia di dogi caduta in disgrazia e sommersa dai debiti che vive di nascosto nella sua lussuosissima casa pignorata, perennemente in fuga dall’ufficiale giudiziario che lo insegue e gli fa le poste per consegnargli l’ordine di sfratto, e che alla fine si innamorerà della parrucchiera, così come il giovanissimo Imam Saladino che viene mandato a Venezia in loro aiuto, simbolicamente bendato per non “vedere la corruzione della società”, dice e che “purtroppo in questo caso la lapidazione non si può fare” sentenzia, ma poi cercherà addirittura di accoltellare Zara sotto la doccia in perfetto stile Psycho con tanto di urlo di lei. Aggiungete la musiche originali dell‘Orchestra di Piazza Vittorio ed ecco Pitza e datteri il nuovo film di Fariborz Kamkari, il regista curdo de I fiori di Kirkuk, che torna al cinema con una commedia corale, multietnica e leggera, nonostante il tema, da oggi in circa 60 sale.
“Abbiamo voluto fare una commedia su un tema estremamente delicato e drammatico – ci racconta Fariborz Kamkari – e fin dall’inizio ci è venuto in mente l’esempio della commedia italiana da cui io ho imparato tante cose. Questo film è un invito a riflettere su questo tema importante con un po’ di distanza, senza panico, con il sorriso e senza paura”.
Eppure molta gente oggi ha paura della sola parola islamico…
“Io sono un immigrato di prima generazione, vengo da una cultura islamica, nato e cresciuto in un paese islamico, insomma appartengo a quella comunità islamica che fa molta paura a tutti, ma posso dire che la maggior parte delle persone di questa comunità si sentono molto a disagio quando vengono presentate come una minaccia o un pericolo. In realtà spesso sono purtroppo presi in ostaggio da una minoranza di integralisti aggressivi e fondamentalisti che parlano a nome di tutta la comunità, e poi sono ignorati dai media perché un musulmano simpatico e moderno non fa notizia. Per questo ho voluto raccontare questa storia e rompere la paura intorno a questa comunità di persone perfettamente integrate, per creare simpatia e rompere il ghiaccio su questo tema”.
Non avete mai pensato che forse dopo il drammatico attentato alla rivista satirica Charlie Hebdo non fosse il caso di uscire con questo film?
“Il film in realtà non parla di religione, ma di un disagio sociale di questa comunità alla ricerca di un suo equilibrio che è una tematica molto vecchia del mondo islamico alla ricerca del suo posto nel mondo moderno da più di cento anni. Non parla di Maometto ma delle difficoltà di integrazione e penso che l’integrazione debba venire da entrambe. Penso che invece sia il momento giusto di dare voce a questa maggioranza che la pensa come me, non dimentichiamo che abbiamo una grande tradizione della letteratura comica nel mondo islamico e questo film ne è solo un esempio, ma ce ne sono molti altri soprattutto tra i giovani filmaker, forse però in Italia ne sono arrivati poch”i.
E di Charlie Hebdo e della libertà di satira cosa pensa?
“Con tutto il rispetto per la libertà di espressione, io non condivido il loro modo di fare satira, non credo alla libertà assoluta ma penso che ci devano essere dei limiti. Tutti devono avere la libertà di esprimersi, ma con un po’ di autocensura e rispetto e penso che questo film abbia rispetto”.
Sorprendentemente nel film aleggia molto spirito femminile…
“Perché chi conosce il medioriente sa che c’è una grande presenza delle donne che sono la vera forza di cambiamento, ma non viene mai raccontata, e questa comunità rappresentata nel film è un piccolo esempio della società di origine”.
Parole che trovano eco anche in quelle del protagonista:
“ho trovato bellissima l’idea di affrontare questo tema che è necessario – ci dice Giuseppe Battiston – le paure le preoccupazioni non devono fermare la possibilità di riflettere o sarebbe darla vinta a una frangia di persone che con tutto hanno a che vedere tranne che con il dialogo e con la voglia affrontare una discussione. Questo film racconta attraverso a leggerezza della commedia l’incontro tra le religioni”.
C’è una sorta di messaggio?
“Direi che il film fa anche capire, sempre in modo lieve e leggero, come una forma di pensiero deteriore possa attecchire nella mente di una persona e qual è la tipologia di persone che si fanno abbindolare, certo le più disagiate, quelle in miseria non economica ma spirituale, per le quali la disperazione è così forte che si cerca qualcosa in cui credere al di sopra di ogni altra cosa”.
Come è stato interpretare un tipo come Bepi?
“La figura di questo veneziano che si converte all’Islam e poi diventa un fondamentalista mi ha conquistato subito. Interpretare Bepi è stato molto divertente, ma alla fine si tratta di un emarginato, di una persona sola che cerca un modo per farsi accettare dal mondo facendosi accettare dalla comunità musulmana, così abbraccia questa fede solo che lo fa a modo suo, con quella malagrazia e quella goffaggine che lo contraddistingue. L’idea di un fondamentalista veneziano è quanto meno bizzarra”.