L’ultimo lupo di Jean Jacques Annaud da oggi nelle sale con il sostegno del WWF. ll regista francese: siamo solo animali coi vestiti

di Patrizia Simonetti

Se amate gli animali questo film non potete vederlo, ci stareste troppo male e alcune scene potreste non sopportarle. Se amate i cani poi, e se ne avete uno, peggio ancora. Ma per lo stesso motivo, se li amate davvero e li conoscete e magari ci convivete con uno o più dei discendenti addomesticati dei lupi, allora questo film dovete proprio vederlo. E lo stesso vale se non amate gli animali, e quindi avete già un problema serio, perché se non li amerete o almeno non li rispetterete neanche dopo aver visto questo film, allora il problema che avete è molto più che serio.

Mongolia, 1967, a un anno dalla rivoluzione culturale cinese promossa e portata avanti da Mao. Uno studente di Pechino di nome Chen Zhen viene mandato nelle zone più interne della regione per insegnare a una tribù di pastori nomadi, ma presto scopre che è lui a dover imparare molto da loro, dalla steppa e dalla creatura più libera, forte e astuta che vive in quei posti: il lupo. Trova un cucciolo e ci si affeziona decidendo di tenerlo con sé e addomesticarlo nonostante qualcuno lo avvisi: “hai catturato un dio per farne uno schiavo”. Ma non tutti amano i lupi e da un ufficiale del governo arriva un ordine crudele quanto insensato: uccidere i cuccioli nelle loro tane per evitare la riproduzione della specie anche se “la morte dei loro cuccioli li renderà assetati di vendetta e contrattaccheranno con estrema ferocia” prevede qualcuno. Chen cercherà a tutti i costi di nascondere il suo lupo e salvargli la vita. Perché potrebbe essere lui l’ultimo lupo.

Tratto dal romanzo autobiografico Il totem del lupo di Jiang Rong uscito nel 2004 sotto pseudonimo e scampato alla censura, L’ultimo lupo è il nuovo film di Jean Jacques Annaud presentato domenica scorsa al Bif&st 2015 e da oggi in 300 sale anche in versione 3D distribuito da Notorious Pictures, in Cina già un successo con un incasso di oltre 100 milioni di dollari in un mese.

“Avevo letto il romanzo e lo avevo trovato assolutamente straordinario – racconta il regista francese – e mi sono detto: ‘è un vero peccato che io non possa andare in Cina per fare di questo romanzo un film.’ Un po’ di tempo dopo si sono presentati da me dei signori sorridenti che venivano da Pechino offrendomi di farlo. Io li ho ringraziati rispondendo: ‘mi dispiace, ma io non sono il benvenuto nel vostro paese” e a loro volta mi hanno risposto: ‘ la Cina è cambiata e noi abbiamo bisogno di lei perché sappiamo che lei ama le minoranze, ama il lupo, sicuramente amerà la Mongolia e speriamo che ami anche noi’ e io mi sono fidato. Ho goduto di libertà assoluta, ho scelto tutto io, dagli interpreti alla musica, ho scritto anche la sceneggiatura”.

Ma perché questa caccia spietata ai lupi?

“La rivoluzione culturale in Cina ha generato un tale fame in tutto il Paese che l’ansia era quella di trasformare tutti i terreni in colture – spiega Annaud – e lo sforzo è stato quello di trasformare la Mongolia in un terreno agricolo, ma era impossibile a causa dell’elevato numero di lupi e allora in Cina è stato fatto esattamente ciò che è stato fatto in Francia, cioè il governo ha istituito un corpo militare dedicato allo sterminio dei lupi e in Francia esiste tuttora. E uno dei motivi che mi ha fatto amare il libro è stato proprio l’universalità del tema: i problemi che si sono verificati in Cina negli anni sessanta sono stati identici quelli che abbiamo riscontrato noi in Francia o che hanno afflitto l’Australia o il Canada e l’interesse per me nel fare questo film era proprio mostrare che questa storia che si svolge in Mongolia riflette in realtà situazioni analoghe in tanti paesi”.

Il regista de Il nome della rosa, Sette anni in Tibet e Il principe del deserto, torna dunque a girare un film dedicato agli animali, un amore che lo accompagna da sempre come quello in generale per la natura che si rispecchia e si rivela nei paesaggi mozzafiato del film.

“Il mio amore per la natura è qualcosa che ho sviluppato da bambino – racconta – ricordo quanto ero felice di trascorrere del tempo nel giardino di casa e quanto mi piaceva durante le vacanze estive andare in campagna o al mare e sentire gli elementi, la tempesta, il vento, la neve. Quindi quando sono alla ricerca di un soggetto per un film, istintivamente rimango attratto da storie ambientate in luoghi lontani e solitari o che mi fanno sognare, sperando di poter far sognare il pubblico insieme a me”.

E poi la scoperta del mondo animale che in fondo non è poi così lontano dal nostro.

“La vita è fatta di azzardi e di casualità – dice Jean Jacques Annaud – e io ho scoperto il mondo animale esattamente come il protagonista de L’ultimo lupo. Nello stesso anno in cui questo giovane veniva mandato in Mongolia, io venivo mandato in Africa e lì mi sono innamorato e ho scoperto l’universalità dell’umanità, quindi la somiglianza tra l’animale e l’uomo. L’ho scoperto ancora di più quando nel 1988 ho girato L’Orso perché mi sono reso conto che in fondo io sono un animale, vestito con degli abiti ma sempre un animale, perché le cose essenziali della vita noi le condividiamo con il regno animale, come l’istinto, la pulsione d’amore, il territorio, e ho sperato attraverso i film con gli animali di rendere migliore l’uomo”.

L’ultimo lupo in Italia ha anche il sostegno del WWF perché aiuta a promuovere nel nostro paese la conoscenza di questa meravigliosa creatura selvaggia e, si spera, ad abbattere pericolosi pregiudizi nei suoi confronti che ancora una volta attentano alla sua sopravvivenza. Perché siamo grandi e dovremmo smetterla di credere al lupo cattivo delle favole. I cattivi nel mondo reale sono altri.

 

 

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