Laika: videointervista alla street artist protagonista di Life is (not) a Game

di Patrizia Simonetti

L’ultimo poster lo ha disegnato e attaccato domenica scorsa vicino alla Casa Circondariale de L’Aquila dove è rinchiuso in regime 41Bis Matteo Messina Denaro, e ritrae il piccolo Giuseppe Di Matteo, il bambino rapito, ucciso e sciolto nell’acido a soli 12 anni per ordine del boss di Cosa Nostra l’11 gennaio del 1996, dopo una lunga e sofferta prigionia, per colpire il padre Santino, collaboratore di giustizia: Matteo è sul suo cavallo ed esulta per l’arresto del suo carnefice. Sul fianco dell’animale c’è scritto Mafia Sucks, la mafia fa schifo, e sotto la dedica a Giuseppe Di Matteo, Nadia (Nadia Nencioni, la bimba di 9 anni tra le vittime della strage di Via dei Georgofili a Firenze nel 1993), Paolo e Giovanni. A tutte le vittime di mafia. Il poster è stato rimosso dopo 24 ore e lei non si spiega il perché. Lei si chiama Laika, come la cagnetta di tre anni spedita nello spazio dai russi il 3 novembre del 1957, di cui, ovviamente, non si ebbero mai più notizie. Per tutti è una street artist, ma lei preferisce definirsi un’attacchina. Più che dipingere sui muri, Laika infatti attacca poster appena realizzati su un tema che l’ha colpita e di cui vuole che si parli. E li affigge sempre nel posto giusto.

Laika è un nome d’arte, di lei si sa poco o niente, neanche com’è fatta, dal momento che preferisce restare nell’anonimato e quindi mostrarsi solo con una maschera bianca sul viso, un caschetto rosa e in tuta, e parlare con la voce elettronicamente distorta. Proprio come nella nostra videointervista. “Senza maschera mi sentirei meno libera” ci racconta. Ora su di lei, e con lei, esce un film dal titolo Life is (not) a game, opera prima di Antonio Valerio Spera: presentato con successo in anteprima alla Festa del Cinema di Roma,  Life is (not) a game arriva in sala il 2 febbraio prodotto da Morel Film e Salon Indien Films per una co-produzione italo-spagnola e distribuito da Kimera Film e Morel Film, a raccontare gli ultimi due anni cruciali della vita di tutti noi e anche di Laika, quelli segnati dalla pandemia.

Nel film la vediamo all’opera e troviamo, tra gli altri, il poster dedicato a Sonia, la nota ristoratrice cinese di Roma che ha sofferto di razzismo all’arrivo della pandemia in quanto cinese; L’Abbraccio, quello di Giulio Regeni a Patrick Zaki mentre lo rassicura che stavolta andrà tutto bene, affisso vicino all’Ambasciata egiziana della Capitale. Fino alla guerra e all’immagine immaginata dei rifugiati ucraini che aiutano quelli più invisibili, e alle opere dedicate e reegalate ai migranti bloccati in condizioni disumane tra Bosnia e Croazia, che tentano all’infinito, come in un loop, di passare il confine verso l’Europa e ogni tentativo è un game, quello del titolo del film, durante il quale vengono picchiati e torturati, senza sapere se ne mai usciranno vivi, e lo raccontano a lei che per loro si toglie la maschera.

Scopriamo anche la Laika giocosa, spiritosa, ironica: come quando disegna l’eurodeputato ungherese Szajer del partito omofobo e xenofobo, beccato in un’orgia gay e si compiace del successo sui social; o quando si fa coraggio e si avventura in rapidi blitz notturni per attaccare le sue opere sui muri della sua città in piena pandemia. Siamo davvero entusiasti di averla incontrata, di aver parlato con lei, di annunciare con lei la sua personale dell’11 marzo alla Galleria Rosso20sette e di presentarvi, quindi, la nostra videointervista a Laika: