Sembra niente, sembra una partita di calcio di poca importanza tra due squadre di ragazzini della periferia romana in un campo sterrato, con poca erba, polveroso. Invece è una finale che vale la vita. È il 5 maggio 2002 e in un campo più grande, molto più grande, l’Inter sta perdendo lo scudetto contro la Lazio. Tra calci al pallone, grida e incitamenti, gol fatti e altri mancati, spintoni, falli, fischi e cadute, rotolano sogni, speranze e scommesse, nel vero senso della parola, sulla vita. Il presidente dello Sporting Roma cui appartiene il campo per esempio: lui si chiama Italo, non ha più un soldo, il figlio cocainomane li ha mangiato tutto, allora Italo scommette, per l’ultima volta nella vita, scommette che quei ragazzi vinceranno, si gioca tutto, tutto quello che ha, altrimenti non avrà più niente. Anche il papà di Antonio scommette, al contrario però, si gioca i soldi sulla sconfitta della squadra del figlio che è il capitano, un ragazzino forte, coraggioso, orgoglioso, chiamato a scegliere, e quindi anche lui a scommettere, proprio su quel campo, tra l’onestà, l’onore, il suo futuro da calciatore e la famiglia, così almeno gli dice il padre. Ad allenare quei ragazzi c’è mister Bulla: non ha mai vinto niente, sono vent’anni che ci spera ma niente, quella partita potrebbe essere la volta buona, sennò gli toccherà andare a lavorare in una scuola privata ad allenare ricchi figli di papà, del resto, a tal proposito, sua moglie è incinta e non è più una ragazzina. E poi ci sono i cattivi, quelli veri: come Umberto, che vende panini ed è fissato con l’amatriciana, ma in verità è uno strozzino e un criminale di quelli peggiori e ha già infilato le sue grinfie sullo Sporting, e ha uno scagnozzo grande e grosso che si sporca le mani per lui. Ecco perché quella partita non è per niente cosa da poco. E tutto ciò mentre dietro al campo due ragazzi fanno l’amore in macchina e parlano della vita, ma è un altro tempo, anche se è la stessa storia e pure la cicatrice sulla mano è quella della stessa ferita.
Una scommessa è lo stesso film che la racconta: La Partita, opera prima semi autobiografica del giovane regista romano Francesco Carnesecchi, in arte Frank Jerky, che esce in sala con Zenit Distribution giovedì 27 febbraio sfidando il Coronavirus che ha bloccato pellicole di alto calibro come Si vive una volta sola di Verdone o Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, nonché l’attività stampa di molte altre: “La Partita è un film che ci porta dritti nel cuore di Roma e dell’Italia, inquadrandone debolezze e contraddizioni – dice Francesco Carnesecchi – Il contesto è quello della periferia capitolina. Tra l’erba incolta e i capannoni industriali, in un campo di calcio qualsiasi, due squadre di ragazzini si affrontano in una battaglia senza esclusione di colpi. La passione totalizzante per il calcio è l’angolo attraverso il quale vengono messi in prospettiva tutti i personaggi. A metà strada tra una fede e una droga, il campo da calcio è il luogo attorno a cui si radunano una serie di personaggi tutti, in un modo o nell’altro, dipendenti dal pallone. Perché il calcio non è mai solo un gioco”. A sostenerla questa scommessa un cast di tutto rispetto che annovera Francesco Pannofino, Luca Vendruscolo, Giorgio Colangeli, Gabriele Fiore, Lidia Vitale, Stefano Ambrogi, Simone Liberati.