Io ed Elena: sul palcoscenico il conflitto madre-figlia

di Patrizia Simonetti

Non c’è amore né legame più grande di quello tra una madre e una figlia e, al contempo, non c’è conflitto più doloroso e lacerante quando la vita le porta a scontrarsi, confrontarsi, ferirsi. Donatella Busini lo racconta in Io ed Elena, dramma teatrale in scena dal Teatro Trastevere di Roma dall’11 al 14 maggio, assieme a Ornella Lorenzano. La pièce ha l’ambizione di affrontare, secondo stili che si rifanno al teatro contemporaneo, un tipo di amore poco rappresentato – spiega l’autrice – è un amore spesso nascosto, vissuto dolorosamente in spazi familiari individuali, come quello verso chi ha gravi patologie mentali, che viene rappresentato nelle sue espressioni più taglienti e nel suo doloroso quotidiano, ma che viene alleggerito dalla grazia di un personaggio letterario, quello di Blanche. De facto, Io ed Elena è un omaggio alle donne diverse e lontane dagli stereotipi”.

Sul palco approda quindi il rapporto complesso tra le due donne, il dolore, il passato che torna prepotente in un presente difficile e malato, dove escono fuori tutti i non detti e le paure che contraddistinguono spesso i rapporti tra le figure femminili della famiglia. Madre e figlia vicine nella solitudine con cui l’esistenza e la malattia le hanno portate a convivere, si gettano addosso rancori mai sopiti, paure, rifiuti e ossessioni: da un lato la paura di invecchiare di Giovanna, la madre, che la porta a ricercare compulsivamente, in maniera maniacale e a tratti folle, conferme da parte di un uomo ideale; dall’altra la follia conclamata ma lucida di Elena, sua figlia. Entrambe dialogano con Blanche Dubois, la controversa protagonista di Un tram che si chiama desiderio, l’opera di Tennessee Williams, che rappresenta la loro coscienza e i loro desiderata.

Il rapporto violento, cupo, tagliente e sfibrante come solo gli amori veri possono essere, viene raccontato in un contesto a tratti surreale, in cui aleggia continuamente il concetto dell’incanto della Dubois, fulcro di tutta la pièce, attorno a cui ruota la ricerca esasperata ed esasperante di madre e figlia. Perché attorno e dentro a questi due diversi microcosmi si muove un mondo di solitudine ancestrale, di follia e di paura, e nonostante l’osmosi continua tra le personalità delle due – o delle tre? – vi è il sottofondo di un contraccolpo doloroso. Pur essendo una drammaturgia tutta al femminile, il testo rimanda anche ad alcune figure maschili – a volte idealizzate, a volte evocate in quanto personaggi del doloroso passato o del torbido presente di Giovanna – e che rappresentano, sotto alcuni aspetti, i dolori delle due donne e le loro solitudini. Nel dramma, in cui la musica e il teatro nel teatro danno la dimensione della fluidità in cui agiscono la follia e la disperazione, alla fine avverrà il parto, una sorta di consapevolezza da parte di entrambe, che viene alla luce aprendo uno squarcio definitivo e irreversibile sulla condizione umana delle protagoniste.