Il Piccolo Principe di Mark Osborne: il mio film è una celebrazione del libro, spero riapra il dialogo tra genitori e figli

di Patrizia Simonetti

Portare sul grande schermo un libro come Il Piccolo Principe era sicuramente un’operazione moto rischiosa. Raccontare con un semplice film d’animazione quel testo magico, onirico e suggestivo scritto in piena seconda guerra mondiale dall’aviatore-scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry poteva davvero trasformarsi in un pericoloso autogol. Ma Mark Osborne ce l’ha fatta grazie a un principio semplice quanto raro: rispettare l’opera originaria. Ecco allora che Il Piccolo Principe, presentato fuori concorso come evento di chiusura di Alice nella Città sia in versione originale che doppiata in italiano con le voci di Toni Servillo, Paola Cortellesi, Stefano Accorsi, Micaela Ramazzotti, Alessandro Gassmann, Giuseppe Battiston, Pif e Alessandro Siani, Lorenzo D’Agata e Vittoria Bartolomei, e che arriverà nelle nostre sale il primo gennaio prossimo (non più il 3 dicembre come preannunciato) distribuito da Lucky Red, si compone di due mondi: quello di una bambina di cui non sapremo mai il nome, figlia unica senza padre di una madre che le organizza la vita minuto per minuto affinché diventi un’adulta straordinaria, impedendole di giocare, sognare, farsi degli amici, vivere, insomma, la sua infanzia, e quello del piccolo principe del libro di Antoine de Saint-Exupéry, che li distingui per temi e atmosfere ma anche e soprattutto al primo colpo d’occhio per la diversa tecnica di animazione, in computer animation il primo, in stop motion effetto 3D il secondo.

Anello di congiunzione un personaggio meraviglioso che appartiene a entrambi gli universi, il nonno un po’ folle e sognatore che tutti avremmo voluto avere, e che guarda caso è l’aviatore, oramai vecchio, ma più vivo della ragazzina e di sua madre messe insieme, lui che il piccolo principe lo ha incontrato per davvero e lo ha ascoltato raccontargli dei suoi strani incontri avvenuti nel suo vagare da un pianeta all’altro, e che cerca in tutti i modi di far conoscere quel mondo alla bambina per salvarla e per salvare la sua infanzia in un mondo troppo adulto dove ai bambini si chiede solo di crescere in fretta, e di insegnarle che “ciò che è importante è ciò che è invisibile” perché, come dice la volpe, “è solo con il cuore che si può vedere veramente, che l’essenziale è invisibile agli occhi” e che in fondo, anche se abbiamo tante rose, quello che cerchiamo “potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”. E che l’amore val bene un po’ di sofferenza perché “si corre il rischio di piangere un poco quando ci si lascia addomesticare”. Un film poetico, commovente e coinvolgente che più che i bambini dovrebbero vedere i grandi e del quale abbiamo voluto parlare direttamente con il regista Mark Osborne.

Come è arrivato a Il Piccolo Principe dopo Kung Fu Panda?

Io affronto sempre ogni film come una nuova occasione. Kung Fu Panda fu un’opportunità incredibile di esprimere un omaggio alla cultura cinese e ai film sulle arti marziali e sono stato molto felice che in Cina e in Indonesia è stato apprezzato proprio come una celebrazione della loro cultura. Questo risultato mi ha dato il coraggio e l’entusiasmo per affrontare questa storia, un classico venerabile, pensando che avrei potuto trattarla con lo stesso tatto con cui avevo trattato la cultura cinese, cercando cioè un modo di creare un film che fosse una celebrazione di quel libro che mi aveva tanto colpito e influenzato. Volevo raccontare la storia di come un libro possa toccare le nostre vite proprio come ha fatto Il Piccolo Principe per settant’anni con tutti noi.

Nel suo film la storia narrata nel libro di Antoine de Saint-Exupéry non viene in nessun modo toccata ma allo stesso tempo è come se venisse attualizzata

Nel film se guarda bene non ci sono telefoni cellulari né computer e questo perché abbiamo cercato di creare un mondo e una storia senza tempo, l’unica che possa durare, il tentativo era cercare di fare qualcosa che fosse al di fuori dal tempo così come al di fuori dal tempo è il libro di Antoine de Saint-Exupéry. L’idea della mamma e il modo in cui tratta la bambina arriva del resto direttamente dalle primissime pagine del libro quando l’aviatore descrive quando lui stesso era bambino e di come gli dicevano che doveva smettere di disegnare per occuparsi invece di scienza e matematica e presumo che questa sia un’esperienza infantile dello stesso Antoine de Saint-Exupéry,quindi di molti anni fa. E questa considerazione mi ha dato l’idea che probabilmente i bambini sentono sempre che gli viene chiesto di crescere troppo rapidamente, che questa è una cosa molto comune anche se oggi probabilmente si sente in forma molto più estrema. La speranza era quindi quella di prendere quei temi dal libro che hanno una risonanza per ogni età e ogni tempo e costruire una storia più grande, con l’obiettivo di creare qualcosa che fosse un’estensione del libro. Nel libro c’è un’indicazione molto chiara: l’aviatore ha quarant’anni quando incontra il piccolo principe e ne ha 46 quando scrive la storia, quindi io l’ho immaginato quarant’anni dopo 86enne e questa è la collocazione che abbiamo dato alla storia nel film, ma spero sia fuori dal tempo come il libro.

L’effetto bellissimo dei due mondi è dato anche dalla doppia tecnica di animazione, un azzardo ma ben riuscito…

Una delle primissime idee che mi sono venute è stata una di quelle che non pensavo mi venisse mai consentito di realizzare perché molto complessa: usare, appunto, due tecniche di animazione diverse per raccontare una sola storia, la stop motion e qualcosa che desse la sensazione della carta e di qualcosa di molto delicato per le sequenze che riguardavano il libro in modo da sentire la differenza, di passare dalla realtà di questo mondo molto adulto che è reso volutamente in modo molto freddo a un calore creato con la tecnica a mano della stop motion, ricordi di infanzia, qualcosa che desse la sensazione di essere antico e creasse un ponte tra la realtà e le illustrazioni originarie del libro. Soni felice che questa doppia tecnica venga apprezzata perché per tanto tempo mi è stato detto che non poteva funzionale, ma io ero convinto che fosse il modo giusto di raccontare la storia. L’uso di due tecniche diverse come strumento è stato un modo fantastico che ci ha aiutato a creare una storia più forte e più emotiva.

In questo modo ha anche protetto il libro, aggiungendo il personaggio della bambina, di sua madre e del loro mondo che nel libro non c’è…

Non puoi proteggere un libro se fai un film solo con quel libro. Qui la bambina ci mostra il libro attraverso la sua immaginazione e noi abbiamo scelto quelle parti del libro più significative per quel personaggio che deve fare i conti con una famiglia spezzata, far fronte alle pressioni della madre che vuole farla crescere, vivere la sua solitudine, e che risponde a quelle parti del libro che le parlano di questi aspetti.

Considerando il finale, che effetto vorrebbe che avesse il suo film su chi lo vede?

Il finale è volutamente ambiguo perché volevo che il film fosse un dialogo con il pubblico e non solo un prodotto chiuso. Antoine de Saint-Exupéry ha scritto Il Piccolo Principe deluso dalla guerra e da Hollywood per cercare di cambiare qualcosa nel mondo e non avrebbe immaginato mai quanto quel libro avrebbe davvero cambiato le cose nel mondo. Noi siamo riusciti a fare un film che chiude il cerchio, speriamo che apra gli occhi alle persone e anche un dialogo tra genitori e figli, io che sono un padre voglio sempre che mi venga ricordato di passare più tempo con i miei figli. Spero che il film funzioni nel modo in cui ha funzionato il libro.

Cosa ne pensa del cast italiano chiamato a doppiarlo?

Sono entusiasta del cast che avete scelto in Italia, un gruppo di attori fantastici, ed è molto commovente sapere che il film riceva la stessa cura e attenzione in ogni paese.