Il figlio di Saul, l’orrore di Auschwitz nell’opera prima di Làszlo Nemes candidata all’Oscar. Videointervista al protagonista Gèza Rohrig

di Patrizia Simonetti

Auschwitz 1944. Nel campo di concentramento di Birkenau lo sterminio degli ebrei nelle camere a gas è un orrore quotidiano, solo nell’estate di quell’anno ne vengono ammazzati a migliaia. A coadiuvare il “lavoro” dei nazisti ci sono gruppi di prigionieri scelti dalle stesse SS, il loro compito è di accompagnare gli altri ebrei nelle camere a gas, ripulire, bruciare i loro corpi che i tedeschi chiamano “pezzi” e scaricare le loro ceneri nel fiume, non senza aver prima svuotato le tasche dei vestiti laceri che hanno lasciato sugli attaccapanni pensando, come gli veniva detto, di andare a fare una doccia collettiva. Questi gruppi di apparenti collaborazionisti si chiamano Sonderkommando e chi vi fa parte è in qualche modo privilegiato, in relazione alla situazione si intende: hanno alloggi migliori e possono mangiare più o meno tutti i giorni, ma alla fine, trascorsi 4 mesi, proprio come tutti gli altri finiranno pure loro asfissiati e cremati perché testimoni di tanto inumano sfacelo meglio non lasciarne, e quindi sostituiti via via con altri gruppi. Il figlio di Saul, opera prima ma già pluripremiata del regista ungherese Làszlo Nemes ispirato da un libro che raccoglie gli scritti clandestini di alcuni di loro ritrovati dopo tanti anni, candidato all’Oscar 2016 come miglior film straniero e da giovedì 21 gennaio nelle nostre sale grazie a Teodora Film, è sì un altro film sull’Olocausto, ma a farci vedere tutto ciò con i suoi occhi è uno di loro, uno dei membri del Sonderkommando, Saul Auslander, egregiamente interpretato da Gèza Rohrig, poeta ungherese al suo debutto sul grande schermo. Un film che è più di un pugno nello stomaco anche se i corpi nudi e straziati non sono mai in primo piano, ma sempre sfocati sullo sfondo, come il pianto dei bambini e le grida delle donne, davanti c’è sempre lui, Saul, indifferente a tutto, è proprio ciò che sembra, e ci viene da chiederci chi mai sarà stato prima. “Seguendo i movimenti di Saul ci fermiamo davanti alla porta della camera a gas – spiega Nemes – per entrarvi solo a sterminio avvenuto per la rimozione dei corpi, le immagini mancanti sono quelle della morte dei prigionieri, immagini che non possono essere ricostruite, né dovrebbero essere toccate o manipolate in nessun modo; assmere il punto di vista di Saul vuol dire anche mostrare solo ciò a cui lui presta attenzione”. Saul che in un giorno apparentemente terribile come un altro, mentre è assieme agli altri a ripulire la stanza della morte, si accorge che un ragazzino ancora respira, ma la speranza di quella vita che ha provato a resistere contro tutto e tutti è presto distrutta. Solo a lui pensa d’ora in poi Saul, al diavolo la rivolta, al diavolo gli altri esseri umani gettati nel fiume con un colpo in testa, al diavolo il pacco con la polvere da sparo che avrebbe dovuto consegnare ai compagni, il suo unico, ossessivo, autistico compito adesso è quello di trovare un rabbino per dare un funerale e una degna sepoltura a quel ragazzo che dice a tutti essere suo figlio. Abbiamo incontrato Gèza Rohrig, ecco la nostra videointervista:

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