Falling – Storia di un padre, splendido esordio alla regia di Viggo Mortensen

di Patrizia Simonetti

Tra i tanti artisti che hanno deciso di passare dietro alla macchina da presa, Viggo Mortensen è certo tra i più meritevoli: attento, sensibile e poliedrico, capace di attingere dalla propria memoria di vita impastandola con l’arte del cinema, della visione e dell’immaginazione, ci ha regalato un film che per amore di sintesi iniziamo col definire semplicemente bello. Si intitola Falling – Storia di un padre ed è un racconto che si snoda tra presente e passato grazie a quei colpi di memoria, rigorosamente fallace e complice, che sul grande schermo si trasformano in altri piccoli film incompleti, ma assolutamente portanti dell’intero lavoro. Ed è così che di flashback in flashback il Viggo Mortensen regista ci svela segmenti della storia che fu, di quel lungo prologo che alla fine – o all’inizio – mette di fronte un padre e un figlio costretti dalla vita stessa alla resa dei conti.

L’attore newyorkese che abbiamo imparato ad amare grazie a Il Signore degli Anelli prima, e a Captain Fantastic e Green Book poi (qui il nostro videoincontro con Viggo Mortensen alla Festa del cinema di Roma), in Falling – Storia di un padre si è ritagliato anche il ruolo da coprotagonista – sembra più per volere della produzione che per decisione personale – a fianco di Lance Henriksen che interpreta alla perfezione Willis, l’anziano padre di John (Viggo Mortensen, appunto) e di Sarah (Laura Linney). Come da titolo, è lui il personaggio principe della storia, un uomo che è sempre stato aspro, intransigente, duro, dominante, razzista e omofobo, abbandonato per questo anche dall’amata moglie Gwen (Hannah Gross) che se ne andò con i due figli ancora piccoli innestando in loro sentimenti contrastanti anche nei suoi confronti che li accompagneranno per il resto della vita; un cacciatore che porta il figlioletto ad ammazzare le “fottute anatre” e lo lascia dormire e fare il bagnetto con il cadavere della prima cui ha tolto la vita prima che se la ritrovi nel piatto; che grida per farsi sentire e rispettare come se la violenza del suo carattere covi in lui come brace rossa di fuoco. Un uomo che però ora si ritrova vittima ora di una demenza senile che lo costringe ad aver bisogno degli altri, di suo figlio in primis, al quale non ha mai perdonato, e tanto meno ha intenzione di farlo ora, di essere gay, di aver sposato un altro uomo e di aver adottato con lui una bambina formando una vera e propria famiglia: “la dinamica del loro rapporto si sviluppa lungo linee di faglia generazionali e geografiche tra un anziano contadino conservatore e colui che egli considera un eccentrico figlio moralmente debole – spiega Mortensen è anche il contrasto tra il cuore rurale e centrale degli Stati Uniti e la società urbana progressista dalla Costa Occidentale. Alla fine, i legami affettivi famigliari danneggiati che un tempo li tenevano uniti, e che il racconto rivisita attraverso i loro ricordi soggettivi, li aiuteranno a superare in parte le sofferenze che hanno procurato a se stessi e gli uni agli altri nei decenni trascorsi dall’infanzia di John”.

Nell’inverno del 2009, Willis è infatti costretto a lasciare la sua fattoria isolata dal mondo nel rurale nordest per trasferirsi in California dove suo figlio John vive con il suo compagno Eric (Terry Chen) e la giovanissima Monica (l’esordiente Gabby Velis). Willis non comprende quel modo di essere e di vivere, non accetta, non tollera, non sopporta, non lo fa neanche con i figli di sua figlia, ma si lega stranamente a Monica con la quale crea un legame onesto e inaspettato. Con suo figlio invece è molto più dura. Eppure, nonostante i colpi e le ferite, il muro apparentemente invalicabile e impenetrabile che il vecchio erige tra di loro, tra un’esplosione di rabbia e una richiesta di scuse, John continua ammirevolmente a provare a costruire un ponte che in qualche modo ricrei il legame perso, o forse mai avuto, tra loro: “Willis sta scivolando in una sorta ti stato confusionale e i ricordi del suo passato gli affollano la mente, come fantasmi – racconta Lance Henriksen è consapevole del fatto che il suo cervello gli sta giocando brutti scherzi ed è arrabbiato per questo”.

Falling – Storia di un padre tocca delle corde a tutti noi, quelle più intime e forse inconfessabili persino a noi stessi. O magari coperte dalla polvere di una versione differente delle cose  e degli eventi, quella che vogliamo ricordare e sovrapporre a quella reale perchè fa meno male. Pescare nella sua storia, nel suo intimo e nei suoi affetti è stata per Viggo Mortensen la chiave giusta per realizzare un film toccante e sincero capace di aprirci il cuore. “L’idea mi è venuta mentre attraversavo l’Atlantico dopo il funerale di mia madre – rivela – non riuscivo a dormire, la mia mente era invasa da echi e immagini di lei e della nostra famiglia in diverse fasi delle nostre vite insieme. Sentendo il bisogno di descriverli, iniziai ad annotare una serie di incidenti e di  frammenti di dialogo della mia infanzia che ricordavo. Più scrivevo di mia madre, più pensavo a mio padre. Ad ogni modo, al momento dell’atterraggio le impressioni che mi ero appuntato si erano evolute in un racconto fatto essenzialmente di conversazioni e di momenti che in realtà non erano mai avvenuti, di battute parallele e divergenti che in qualche modo suonavano giuste e che ampliavano la mia prospettiva dei ricordi reali della nostra famiglia che avevo costruito. L’impressione era che quelle sequenze inventate mi permettessero di avvicinarmi alla verità dei mei sentimenti nei confronti di mia madre e di mio padre più di quanto mi avrebbe consentito di fare una semplice enumerazione lineare di specifici ricordi. ‘Questo potrebbe essere un film che parla di una famiglia di fantasia che ha alcuni tratti in comune con la mia’ pensai…Falling – Storia di un padre arriva al cinema giovedì 26 agosto.