Arnaldo Capezzuto è un giornalista napoletano da sempre impegnato a raccontare e denunciare soprusi e abusi della camorra nella sua città, prima come cronista per alcuni quotidiani locali poi come blogger de ilfattoquotidiano.it, e per questo non è stato risparmiato dalle minacce dei clan, quello dei Giuliano soprattutto, e sempre per questo ha ricevuto il Premio Borsellino. Sarà lui ad accompagnare tra le pieghe e le piaghe della sua città le telecamere di Cose nostre nel primo dei cinque documentari della serie al via stasera, sabato 9 gennaio, in seconda serata su Rai Uno, ognuno dedicato a un giornalista minacciato dalle mafie perché ne denuncia esistenza, affari e malaffari, tra quelli non troppo famosi e che non godono di grande fama mediatica, a raccontarne la vita, il lavoro, l’impegno e a seguirli sui loro “campi di battaglia”. Così con Capezzuto eccoci nello storico quartiere di Forcella, regno dei Giuliano, a ripercorrere ascesa e discesa del boss Luigi, autore di canzoni e amico di Maradona, ora collaboratore di giustizia, e anche la breve vita di Annalisa Durante, ammazzata a 14 anni da una pallottola che l’ha centrata “per errore” il 27 marzo 2004, troppo giovane come troppo giovani sono i nuovi protagonisti della camorra, piccoli violenti boss che sparano nelle strade.
Le altre quattro puntate vedono protagonisti Michele Albanese, cronista del Quotidiano del Sud e collaboratore Ansa, anche lui insignito del Premio Borsellino e sotto scorta, con il quale Cose nostre racconta del potere della ‘ndrangheta sul porto di Gioia Tauro dove Papa Francesco lanciò l’anno scorso la sua scomunica contro i mafiosi, e quindi eccoci al rapporto tra mafie e religione; la giornalista e videomaker Amalia De Simone, giornalista di Corriere.it, direttrice di Radio Siani a Ercolano, autrice di molti documentari Rai e vincitrice del premio Maria Grazia Cutuli, con i suoi reportage sulla terra dei fuochi e le sue inchieste sui Casalesi; Pino Maniaci, direttore di Telejato a Partinico, nel cuore della Sicilia, protagonisti, per così dire, i boss siciliani, da Totò Riina a Matteo Messina Denaro; e Giovanni Tizian de L’Espresso, cui la ‘ndrangheta bruciò l’azienda di famiglia che non voleva cedere al racket e poi gli ammazzò il padre, trasferitosi poi a Modena a scoprire e denunciare le infiltrazioni di ‘ndrangheta e camorra nel sistema politico ed economico emiliano.
Firmato da Emilia Brandi, Giovanna Ciorciolini e Tommaso Franchini, scritto con Danilo Chirico, Francesco Giulioli e Giovanna Serpico e diretto da Andrea Doretti, Cose nostre, che a marzo verrà replicato il sabato pomeriggio, è “un appuntamento non consueto per Rai Uno – ammette il direttore Giancarlo Leone – che non trattiamo solitamente di mafia non certo per omertà, ma soltanto perché non è nelle corde della rete. Ma quando mi è stato proposto questo progetto, non è stato difficile per me accettare, e questa – annuncia – sarà solo la prima di altre serie”.
“È il modo giusto per raccontare il rapporto tra mafia e giornalismo – sottolinea Claudio Fava, vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia che sul tema ha da poco stilato una relazione, intervenuto alla presentazione – e mi è piaciuto molto il fatto che Cose nostre abbia scarnificato la figura dell’eroe, quella che si attribuisce ai giornalisti vittime della mafia quando si parla di loro, ma questo li allontana da noi mentre invece sono persone comuni. In Italia ci sono ancora troppi giornalisti sconosciuti che vengono minacciati e che rappresentano la colonna vertebrale dell’informazione”. Almeno 2000 gli episodi di violenza, intimidazione e minaccia nei confronti dei giornalisti italiani dal 2006 al 2014, secondo l’Osservatorio Ossigeno per l’Informazione, 8 quelli uccisi dai clan.