Charlie says, il film sulle ragazze di Charles Manson

di Patrizia Simonetti

Katie, Sadie e Lulu, o come si chiamano davvero, cioè Patricia, Susan e Lesli, sono nel braccio della morte nell’unità di sicurezza speciale dell’Istituto di detenzione Femminile della California, 23 ore di isolamento al giorno, a tempo indeterminato, perché la pena capitale cui erano state tutte condannate nonostante la loro giovane età è stata revocata, ma certo non possono condividere le celle di una prigione come normali detenute visto che, tra le mille altre atrocità, hanno massacrato a coltellate una giovane donna all’ottavo mese di gravidanza di nome Sharon Tate. Ma lui, Charlie, aveva detto loro di farlo. E loro l’hanno fatto. Perché loro Charlie è tuttora “un fascio di luce, o qualcosa del genere” come Katie spiegò a Lulu appena arrivata al loro ranch, colui che diceva ad ognuna di loro di dover essere “come il dito di una mano”, di “lasciare andare il proprio ego”, di non “fissarsi con il seno piccolo” e che qui da lui “non ci sono regole”. Se non quella, tuttavia, di mangiare solo dopo che hanno cominciato a farlo gli uomini, di andare a letto con Charlie ogni qual volta lui ne avesse voglia, di lasciarsi picchiare da lui perché “essere picchiata dall’uomo che ami è come fare l’amore con lui e Charlie mi dà solo ciò di cui ho bisogno” dice Sadie a Lulu. Perché nella famiglia Manson, nessuno appartiene a nessuno se non a Charlie, cui appartengono tutte loro che quindi devono obbedire ciecamente a ogni suo ordine, per quanto folle e brutale possa sembrare. Come il delirio di un’apocalisse imminente, l’Helter Skelter, il sostegno alla rivoluzione dei neri, la vita da sopravvissuti in una grotta sotterranea, ammazzare i ricchi di Hollywood, e tanto altro ancora.  E a tre anni dal loro arresto, dopo i massacri e l’orrore di un’indimenticabile estate hollywoodiana del 1969, loro, Katie, Sadie e Lulu, a tutto questo credono ancora.

Charlie says ovvero Charlie dice, che dopo Venezia, il Tribeca Film Festival e il Fantafestival di Roma arriva finalmente in sala da giovedì 22 agosto, parte da qui: il film, inquietante, coraggioso, vero e straziante, diretto da Mary Harron (Ho sparato a Andy Warhol, American Psycho) racconta il fenomeno Charles Manson attraverso gli occhi delle sue tre fedeli adepte, tre ragazzine fragili e in cerca d’amore plagiate da un criminale folle e sanguinario al quale hanno immolato anima e corpo dimenticando tutto ciò che sono state: perché nella famiglia Manson non si parla del passato, le loro vite sono iniziate quando hanno incontrato Charlie e Charlie non si discute. Tre ragazzine per le quali, viste così miti ed educate dietro le sbarre, la direttrice dell’Istituto, Miss Carlson, prova pena e affida alla psicologa del carcere, la scrittrice e attivista per i diritti umani canadese Karlene Faith, il compito di aiutarle. Karlene farà molto per loro, oltre a scrivere poi un libro intitolato The Long Prison Journey of Leslie Van Houten cui Charlie says è in parte ispirato, non senza restarne toccata e profondamente turbata, e pur consapevole che il riportarle a ciò che erano prima, ovvero Patricia, Susan e Lesli, e metterle davanti a quanto commesso, possa farle uscire dal coma del delirio ma al tempo stesso lasciarle macerare nel rimorso e nell’orrore per tutto il resto della loro vita. E Charlie says il dubbio se ciò sia giusto o meno te lo fa venire per davvero. Perchè la scena sliding doors in cui a Lulu viene lanciata un’ancora di salvezza da un cavaliere errante in motocicletta che vuole portarsela via e lei dice no, scena che poi rivive al contrario, come avesse detto sì, quando in carcere riapre occhi e mente, è straziante e triste: l’occasione è perduta, per sempre, come l’anima e la vita intera.

Charlie says non è un’opera a difesa delle colpevoli – sottolinea però Mary Harronho cercato di comprendere come e perché queste giovani donne siano arrivate a fare cose terribili. Il film è una storia drammatica sugli anni Sessanta ma ha attinenza con i giorni nostri e la gente troverà dei parallelismi con eventi di oggi. Parla però anche di questioni senza tempo, di abuso e dominio, cose che sono successe nelle famiglie, nelle relazioni e nelle società nel corso della Storia. È confortante pensare alle ragazze di Manson come dei mostri, come diverse, come anomale rispetto alla normale esperienza umana. In realtà, la cosa più disturbante è la loro ordinarietà. Come sono arrivate a commettere dei crimini così terribili queste sane e affabili giovani donne? Volevo che il pubblico le vedesse come esseri umani, che si chiedesse ‘e se fossi stato io in quella situazione cosa avrei fatto?’ Ma se intraprendi un viaggio con Leslie, Pat e Susan, devi anche riconoscere che quei crimini sono incomprensibilmente freddi e brutali. Non puoi solo far vedere delle ragazze carine in prigione. Questo è l’equilibrio”.

Eccezionali le giovani attrici che le interpretano: Hannah Murray (Il trono di spade) che fa Lulu, Sosie Bacon (The Closer, Tredici) che è Katie e Marianne Rendon (Imposters, Mapplethorpe) che interpreta Sadie, così come lo sono Matt Smith (Dr Who) nel ruolo di Charles Manson e Marritt Wever in quello della psicologa Karlene. Altro merito di Charlie says è il non indugiare sull’orrore e sul sangue che scorre solo quanto basta più sulle facce di chi colpisce che sulle loro vittime. Non serve. Quello che abbiamo dentro ribolle solo a sentire le deliranti storie di un folle, aspirante rockstar rifiutata dal mondo discografico e per questo molto, molto arrabbiato, detentore di un’inspiegabile potere di vita e di morte sul resto del mondo.