Lungo la Blue Line, nel Sud del Libano con i soldati italiani della missione Unifil su Sky Cinema Cult

di Patrizia Simonetti

C’è la voce di Filippo Timi e ci sono i disegni di Michele Camerotto a raccontare l’arrivo dei soldati italiani nella Blue Line, il tracciato nel sud del Libano che separa il paese da Israele per 120 chilometri: “cinque ore e mezza di traghetto da Beirut verso sud, la strada è troppo pericolosa, c’è chi dorme, chi gioca con il telefonino, chi legge, è caldo e umico senza tregua”. Inizia così Lungo la Blue Line, il film documentario di Andrea Bettinetti prodotto da Good Day Films con la collaborazione dell’Esercito Italiano, lunedì 27 aprile in prima TV su Sky Cinema Cult.

Un viaggio all’interno del contingente italiano impegnato nella missione Unifil sul confine tra Libano e Israele – racconta il regista – un confine storicamente difficile che nel corso degli ultimi cinquant’anni ha visto incessanti scontri armati, occupazioni e invasioni, una terra brulla che divide due paesi che non intrattengono tra loro alcun rapporto diplomatico, ma anche una linea immaginaria che separa due mondi completamente diversi e distanti che mal si sopportano, divisi da un lembo di terra completamente ricoperto di mine, dove la pace non sembra in grado di mettere radici stabili. Ecco che allora – continua Bettinetti – ho deciso di raccontare la complessità della missione Unifil  da una parte attraverso i volti, le voci e i pensieri dei protagonisti silenziosi della vita quotidiana militare a sud del fiume Litani, dall’altra, attraverso la realizzazione di brevi momenti in animazione, ho voluto ricreare le considerazioni e le preoccupazioni che attraversano la mente di un ipotetico soldato in missione, nel tentativo di trasmettere allo spettatore come l’apparente calma che regna sul territorio, non sia sinonimo di mancanza di pericolo, quanto piuttosto un delicato equilibrio raggiunto grazie al quotidiano e a volte frustrante lavoro degli uomini impegnati”.

Diecimila i soldati che partecipano alla missione di interposizione dell’ONU provenienti da 37 diversi paesi. Un migliaio quelli italiani dislocati in tre basi. Per loro, sei mesi senza alcuna libera uscita. “Non è come in Afghanistan – riflette il soldato immaginario con la voce di Timi che fuma appoggiato sulla balaustra del traghetto che lo sta portando sulla Blue Line – qui è più complicato, è la politica, è più sottile”.

Alcuni, di quelli veri, sono alla prima missione, altri alla terza o alla quarta.“Ci addestrano in Italia e al culmine dell’addestramento arrivare in teatro operativo è la massima aspirazione – dice il primo caporal maggiore Giovanni Calabrese – I rapporti interpersonali qui sono importanti”. “La lontananza da casa è l’unico contro” fa eco la pari grado Claudia Montaro. “Certo qui in vacanza non ci sarei venuta – confessa il sergente Francesca De Angelis – qui le donne sono aperte, ti vengono incontro, vorrebbero parlare, ma c’è il limite della lingua”.

Non si spara lungo la Blue Line, non si vedono armi, ma l’odio verso Israele si percepisce e si tocca con mano. Lungo i bordi delle strade le vedi le gigantografie dei caduti del 2006, i martiri della resistenza, quando Israele sferrò l’ennesimo attracco e Hezbollah rispose. “Furono 33 giorni drammatici – ricorda Abdul Hoshen Al Husseini, presidente della municipalità della città di Timo – io ho accolto in città tutti i rifugiati dei villaggi vicini nonostante le bombe, siamo abituati a resistere alla guerra, da 66 anni viviamo con un nemico vicino”.

La calma qui è solo apparente – dice il capitano Anna Chiara Rametta – dico sempre ai miei uomini di non abbassare mai l’attenzione, li comando da tre anni e mezzo, so cosa pensano anche se non parlano. Questa vita si sceglie solo se ci si crede”. Il caporal maggiore scelto Michela Forte è qui da sette anni e “mi piace tutto, l’esercito si vede nel momento della necessità e questo è importante” dice. Per un puro caso l’ha raggiunta anche il padre, il primo maresciallo Marco Forte e lei è contenta perché “così ho sempre qualcuno su cui contare”. “Divisa, regole, rigidità, già da piccolo erano per me una vocazione” racconta il sergente Emanuele Volpe, capo assetto degli assetti cinofili, in missione con lui a cercare e a disinnescare le mine sparse sul territorio c’è anche la sua Sheila, una bella lupa nera di 7 anni: “viviamo in questo canile insieme ai cani – aggiunge Volpe – e tutto ciò che facciamo lo facciamo con loro, sono sempre con noi, anche a casa. Con Sheila ho già fatto due Afghanistan e adesso il Libano. Quando vai via un po’ ti dispiace – confessa – perché conosci le abitudini e anche la gente del posto, però è tanta la voglia di andarsene che alla fine…”

Leave a Comment